PARE CHE LA CROAZIA IL CONTENZIOSO FRONTALIERO CON LA
SLOVENIA NON LO VOGLIA PROPRIO RISOLVERE.
E IL RACCONTO PIU' COMPLETO DI QUESTA BRUTTA STORIA
E’ la seconda volta
che silura un accordo mirato a questo scopo. L’aveva fatto nel 2001 affondando
l’intesa Drnovšek-Račan, frutto di 6 anni di negoziato e compromesso quasi
matematico fra le rivendicazioni dell’una e dell’altra parte, lo rifà di nuovo
con l’accordo di arbitrato.
Quasi imposto da
Bruxelles nel 2009 dopo una fase concitata delle trattative di adesione della
Croazia all’Unione europea che Lubiana aveva cercato di sfruttare per
ammorbidire Zagabria sul confine, ma l’effetto era stato l’opposto - impennata
di nazionalismo, crollo delle relazioni bilaterali al livello storico più basso
e broncio in Europa – prevedeva la nomina di un tribunale arbitrale di 5
membri, di cui due nominati da ciascun contendente, e tre da sedi superiori,
che in 5-6 anni avrebbero sentenziato sulla delimitazione territoriale in terra
e mare fra i due paesi in via definitiva e senza diritto di ricorso. Il 31
luglio si è celebrato il sesto anniversario della firma, apposta al castello di
Trakoščan in Croazia, dagli allora premier Jadranka Kosor e Borut Pahor.
Ma è stata una
celebrazione funesta, dopo che il governo e il Sabor croato, compattato tutto
il mondo politico e mediatico con neanche una voce fuori dal coro, ha deciso di
recedere dall’intesa, ovvero di non riconoscere più l’arbitrato.
Pretesto, un colloquio
telefonico fuori luogo fra l’arbitro sloveno, Jernej Sekolec, e l’agente
governativa slovena incaricata di seguire il processo, Simona Drenik,
intercettato non si sa da chi ma passato ai media croati, in cui i due si
scambiano informazioni e impressioni sul procedere delle cose che pare
preludere ad un soddisfacimento delle aspettative slovene in attinenza al mare.
Nulla di sconvolgente, ma è una comunicazione che nel rispetto della
riservatezza del procedimento e del ruolo di superpartes del giudice, non
doveva avvenire. Di lì a due giorni, Sekolec e la Drenik rassegnano le
dimissioni.
Ciò alla Croazia non
basta. Grida allo scandalo, denuncia una violazione grave dell’accordo e
dichiara l’arbitrato contaminato e non più credibile. Che il suo giudice
Budislav Vukas, abbia l’ufficio addirittura presso l’ambasciata croata all’Aia,
non lo ritiene neanche una sconvenienza. Lui nessuno l’ha colto con le mani nel
sacco (ben protetto entro le mura della sede diplomatica!). Ma va ammesso che,
fin dalla stesura dell’articolo che prevedeva la nomina di un giudice per
contendente, si sapeva che, per quanto formalmente neutrale e imparziale, costui
avrebbe tifato per la propria parte e che la sentenza sarebbe stata presa, in
un modo o nell’altro, con 4 voti contro 1.
Il governo sloveno
corre ai ripari e in neanche una settimana sostituisce Sekolec con un nome di
assoluta levatura mondiale – Ronny Abraham, niente popò di meno che presidente
della Corte di giustizia dell’Aia, ove la Croazia vorrebbe portare il
contenzioso con la Slovenia. Una nomina che s’impone a garanzia della
correttezza del processo.
E anche dalla
Commissione europea, dopo il disappunto per la decisione presa dal governo e
dal Sabor croato e l’invito a ripensarci, il pieno appoggio all’arbitrato che - lo si incoraggia - deve portare a compimento
la sua missione, con o senza la Croazia. Non ci sono altre reali scelte!
La risposta di
Zagabria è dura. Una retorica che in un paese membro dell’UE si riteneva oramai
sorpassata.
“A uno Sloveno posso
anche dare il mio sangue, la mia terra mai! – dichiara Damir Kajin, della Dieta
democratica istriana, che era stato con me fra gli ispiratori nel ‘95 a Isola
del compromesso Drnovšek-Račan. “Che l’Unione europea si occupi di altre cose,
della vertenza su Gibilterra se vuole, ma noi ci lasci stare!”- gli fa eco
l’accademico Davorin Rudolf.
“Bruxelles non è parte
in causa in questo arbitrato”- incalzano la ministro degli esteri Vesna Pušič e
altri rappresentanti del governo, sottacendo che sull’accordo c’e’ anche la
firma dello svedese Fredrik Reinfeldt, all’epoca presidente di turno del Consiglio
europeo. Addirittura la conferenza episcopale croata e il deputato al seggio
specifico italiano Furio Radin convergono sul NO all’arbitrato, un NO la cui
vera natura viene svelata dal giudice croato Vukas, da ieri dimissionario in
rispetto a quanto deliberato dal Sabor: “Il tribunale intendeva togliere alla
Croazia parte del mare territoriale, alla qual cosa mi sono fermamente
opposto”.
Risulta chiaro che
Zagabria pianificava già da tempo di recedere dall’intesa, di sicuro dopo aver sentito
Vukas e non ieri. Se imputi a un tribunale di voler toglierti qualcosa che
anche la controparte rivendica, sei partito male. Vuol dire che nell’affidargli
il compito non eri in buona fede. Il tribunale arbitrale dell’Aia è stato messo
lì non per togliere o dare pezzi di territorio e di confine all’uno o all’altro
contendente, ma per decidere il tracciato più giusto, più onesto, più ottimale.
Insomma, la Croazia dichiara
l’arbitrato morto, checché ne dicano e pensino gli altri – il pretesto
gliel’hanno dato i due allocchi sloveni - e il premier Milanovič scrive a quello sloveno
Cerar. “Incontriamoci e vediamo di trovare una soluzione.” Ma Cerar non ci casca. L’aveva cercato invano già
alle prime avvisaglie del malcontento croato, prima che a Zagabria si
prendessero decisioni unilaterali e irrevocabili, ora, forte per altro della
posizione della Commissione europea e dello stesso Tribunale arbitrale che
annuncia di voler andare fino in fondo, gli risponde con estrema chiarezza: “Il
mio governo si rammarica delle decisioni da voi prese, respinge le
argomentazioni con le quali le avete motivate e riconferma il pieno sostegno
all’accordo di arbitrato quale unico strumento giuridico per la soluzione del
contenzioso frontaliero fra i nostri due paesi.” Bravo, Miro!
E chiudo con una nota
un tantino più personale. Sono fra i pochi in Slovenia che in passato hanno
avuto parole di comprensione per gli atteggiamenti croati, che hanno creduto
nella buona fede di chi li sosteneva. Mi son anche macchiato di consapevole
suicidio politico quando dal Parlamento europeo, unico fra gli europarlamentari
sloveni, ho gridato NO al blocco imposto da Pahor al negoziato di adesione
della Croazia all’UE. Dopo questo secondo tentativo di inficiare la soluzione
di un problema che avvelena oramai da 24 anni i nostri rapporti, alla buona
fede di chi lo pratica e lo sostiene non ci credo più. Evviva l’arbitrato!
E IL RACCONTO PIU' COMPLETO DI QUESTA BRUTTA STORIA
C'erano voluti 18 anni
perché Slovenia e Croazia capissero che, incapaci di risolverla da soli, la
delimitazione frontaliera fra i due paesi dovevano affidarla ad un arbitrato
internazionale.
Al momento
dell'indipendenza, il 25 giugno 1991, entrambi avevano approvato, sì, una legge
costituzionale che sanciva come confini di stato quelli amministrativi che
esistevano nella mappatura della federazione jugoslava, ma scoprivano più tardi
che per una cinquantina dei 670 chilometri quant'e' lunga la frontiera, il
tracciato non era chiaro, o meglio, condiviso. I territori a ridosso erano
rivendicati così dall'una come dall'altra parte.
Nel vivere comune in
Jugoslavia nessuno ci aveva pensato a sincronizzare evidenze catastali e
amministrative e c'erano così paesini o frazioni che curavano i propri
interessi su un versante, ma erano iscritti al libro fondiario sull'altro. E
per riparare alla cosa, le due diplomazie avrebbero negoziato per anni,
scontrandosi però sempre sui criteri da seguire: tracciare il confine secondo
il catasto oppure secondo la prassi amministrativa? Ognuna, ovviamente, con un
occhio di ferma attenzione sui guadagni di territorio, meno su cosa ne
pensassero i residenti.
Comunque il problema
più grosso si riscontrava in mare. La frontiera a terra, anche in questo caso,
coperta nel suo ultimo tratto da doppia giurisdizione, ma questione di qualche
centinaio di metri più a nord o più a sud, sfociava in ogni caso nel Golfo di
Pirano che in Jugoslavia era amministrato per intero, fino all'altezza di Punta
Salvore, in territorio croato, dal comune di Pirano, in Slovenia, vedi per le
concessioni di pesca, vedi per la tutela dell’ambiente, vedi per la navigazione
da diporto, vedi per i controlli di polizia. In più le acque territoriali
"jugoslave" erano comuni e comune l'approccio al mare internazionale.
Così dal 1947 in poi.
Una situazione che la Slovenia voleva conservare pur consapevole che i nuovi
assetti statuali pretendevano un chiarimento delle sovranità territoriali,
ovvero delle frontiere anche in mare. Sfociando il confine terrestre a metà del
golfo, la Croazia ha voluto da subito la delimitazione nella medesima chiave
anche del bacino il che avrebbe tolto alla Slovenia metà della giurisdizione
esercitata per 44 anni e precluso il suo accesso diretto alle acque
internazionali.
E un linguaggio comune
non si è mai trovato, nel mentre incominciavano gli screzi e gli incidenti fra
pescatori croati e sloveni, fra le due polizie marittime, fra polizia
frontaliera croata e residenti sloveni sul versante croato conteso e c'e'
mancato poco, più volte, che ci scappasse il morto. Della retorica
nazional-patriottica fra politici, media e gente comune neanche parlarne. La
qualità e la dinamica delle relazioni bilaterali anche sul fronte economico,
ovviamente in flessione.
Nel 2001, quasi in
risposta ad un appello, con tanto di suggerimenti, lanciato nel 1995 da Isola dai
sindaci dell'Istria slovena e croata, me compreso, a favore di una soluzione di
compromesso, i premier sloveno Drnovšek e croato Račan firmavano un accordo che
chiudeva il contenzioso sia a terra che in mare.
Il Golfo di Pirano
veniva diviso a 3/4 per la Slovenia e 1/4 per la Croazia, con un corridoio di
acque internazionali fino a quelle territoriali slovene.
Sembrava fatta! Sì,
sembrava, ma il nazionalismo croato capitanato dall’HDZ (Hrvatska demokratska
zajednica - Comunità democratica croata), il partito del fu presidente Tudjman,
il più forte a destra, ci mise lo zampino impedendo che l'intesa passasse al
Sabor, il parlamento croato.
Grossa delusione in
Slovenia e pure all’estero sempre attento a ogni pulsazione politica nei Balcani
un tantino più forte e quindi pericolosa. Si erano da poco spente le guerre
post Jugoslavia.
Amen. Accordo di
compromesso fallito e si riprendeva a negoziare, ma era tanto per fare, visto
che ne l'una ne l'altra parte potevano cedere ulteriormente.
La Slovenia comunque,
già candidata all'Unione europea, contava che il suo ingresso a pieno titolo
nella comunità e parimenti nell’Alleanza atlantica le avrebbe dato più forza
negoziale, ovvero costretto Zagabria ad un ammorbidimento.
Fra i pochi a non crederci,
ma a temere invece nuovi e più pericolosi rigurgiti nazionalisti da parte
croata e quindi un ulteriore inasprimento nei rapporti, come difatti avvenne,
mi azzardai qualche anno dopo, ( La Slovenia era da poco entrata nell’UE e
nella NATO e io sedevo alla Camera di stato di Lubiana) a proporre al governo
di voltar pagina e avviare con quello croato una trattativa nuova, sul come,
dove e con quali modalità coinvolgere nella vertenza una terza parte che poi decidesse
in merito. Proponevo due vie: O la Corte di giustizia dell'Aia o un meno
tecnico e più flessibile arbitrato internazionale capace di cucire una
soluzione con un occhio anche alle particolari circostanze storiche, sociali e
culturali dei territori da delimitare.
Le prime risposte
furono di diretto affronto: “Una proposta inaudita, contraria agli interessi
nazionali, al limite del tradimento! Nella nuova posizione porremo la Croazia
in ginocchio e avremo il confine che vogliamo!” Fui quasi scomunicato, anche
dal mio stesso presidente di partito e successivamente premier nonché attuale
presidente della repubblica, Borut Pahor. “Lascia perdere, Aurelio, vedrai che
Zagabria mollerà. Questione di settimane o massimo qualche mese!”….
Correva l’anno 2004.
Questione di qualche mese? Di anni e di rapporti sempre più avvelenati. I
nostri nazionalisti, con alla testa anche politici di spicco, a marciare con bandiere
slovene e gonfaloni un tantino nazi, fino al valico di frontiera di Sicciole e
scontrarsi con entrambi le polizie, slovena e croata, i pescatori di Umago e
Salvore, che mai prima pescavano nel golfo, armati per altro di imbarcazioni
più massicce, a incrociare i nostri e strapparne le reti, e all’arrivo delle
telecamere slovene, a mostrare agli obiettivi gli attributi più intimi e
lanciare ingiurie, le polizie marittime a cacciar via, quella slovena i
pescatori croati, quella croata i colleghi sloveni e a guardarsi sempre più in
cagnesco.
Qualche rissa con
tanto di accuse e controaccuse sulle responsabilità di come andavano le cose
anche nei luoghi di villeggiatura in Istria, Quarnero e Dalmazia, fra turisti
sloveni e abitanti locali.
Il tempo passa, le
ferite al buon vicinato e alla collaborazione si tengono in qualche modo, fra
un cerotto e l’altro, sotto osservazione, e si arriva così alla fase conclusiva
delle trattative per l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, processo che
mi trovo a seguire a Bruxelles come europarlamentare fra i Socialdemocratici.
Ero subentrato al mio presidente di partito, Pahor, dopo che le elezioni in
casa gli avevano affidato la guida del governo. Nell’autunno 2008, visto che la
Croazia sul confine non da segni di cedimento, egli da Lubiana comunica il suo
NO al proseguimento del negoziato. Una posizione in forte odore di ricatto che
personalmente non posso condividere, tanto meno avvertendone le conseguenze, e
che, unico dei sette europarlamentari sloveni, osteggio pubblicamente. Con me
tutto il gruppo socialista e quasi tutti anche gli altri partiti, cui non è chiaro
perché la Slovenia insista a temere una mediazione o un’arbitrato. Contro, i
colleghi sloveni, ovviamente il mio governo, il mio parlamento nazionale,
l’opinione pubblica di casa. E mi ritrovo solo anche all’interno del mio
partito a Lubiana per cui, dopo trentasei anni di militanza, restituisco la
tessera e me ne vado.
Un suicidio politico
in piena consapevolezza. Ma avevo visto bene. Zagabria s’infuria a tal punto da
chiudere ogni comunicazione fra il premier croato Ivo Sanader e il nostro
Pahor, la retorica nazionalista soprattutto in Croazia raggiunge l’apice:
“Neanche un centimetro di terra o mare croato a chi ce li vuole prendere! Ci
batteremo fino in fondo! Costi quello che costi!”
Si muovono le preoccupate
diplomazie europee e americana e costringono Sanader, il falco più grosso, al
ritiro. Gli subentra Jadranka Kosor, sua vice, che con un agire meno
battagliero e più gentile riaggancia il dialogo con Pahor ed entrambi vengono
messi da Bruxelles e Washington di fronte all’unica opzione ancora percorribile:
l’arbitrato. Non gli possono dire di no. Questa volta neanche la Slovenia.
Il commissario europeo
per l’allargamento Olli Rehn formula una prima bozza di accordo in questo senso
che la Croazia respinge perché, a suo dire, troppo vicina alla causa slovena,
ne fa un’altra che a sua volta non trova i favori della Slovenia e poi ci
rinuncia, ma la ricerca di un consenso su questa strada è oramai in corso e
dopo mesi in negoziati intensi, finalmente, la Kosor e Pahor ci appongono la
firma. Il 31 luglio scorso, si son celebrati i 6 anni di quel momento allora considerato
storico.
Sarà nominato un
tribunale arbitrare di cinque membri, di cui tre stranieri e due nostrani,
sloveno e croato. Ogni paese preparerà un proprio memorandum con le tesi e le
ragioni da sostenere, vi saranno i sopraluoghi, i dibattimenti in aula e
l’audizione delle contro-argomentazioni, ognuno avrà le sue squadre di difesa –
avvocati cercati in giro per il mondo fra i più qualificati (e ben pagati!) – e
entro il 2015 si cercherà di addivenire al responso, a quello che sarà il
tracciato definitivo della frontiera in terra e in mare e che entrambi i
contendenti saranno tenuti a rispettare. Niente diritto di appello.
Da noi ancora un
referendum che la destra, contraria all’accordo, pretende e ottiene, ma perde.
Il 55% contro il 45% dei votanti si dichiara favorevole all’intesa. Qui da noi,
nel Capodistriano, dove la tensione sul mare è più sentita, i SI vincono col
70%!
All’indomani del voto
un rapido schiarimento sui rapporti fra i due paesi in tutti i comparti. Si
riparla di buon vicinato, amicizia e partenariato. Finalmente la via alla
soluzione del contenzioso più antipatico e pesante è spalancata.
Niente più incidenti
in mare o lungo la frontiera a terra, di nuovo tutti grandi amici.
In questo recuperato
clima di fiducia, Slovenia e Croazia partoriscono assieme il Processo di Brdo,
dal luogo vicino a Kranj, in Slovenia, sede del primo vertice, processo che si
prefigge di rilanciare, sotto gli auspici dell’UE e dell’ONU, le relazioni fra
i paesi dell’ex Jugoslavia, quale presupposto di una nuova politica di pace,
sicurezza, convivenza, cooperazione e stabilità nell’area. Per altro la formula
dell’arbitrato viene indicata da esempio per la soluzione delle altre vertenze
frontaliere che la Croazia ha ancora aperte coi vicini: con la Bosnia ed
Erzegovina e il Montenegro in Adriatico, nonché con la Serbia sul Danubio in
Vojvodina.
Ma il diavolo, come si
conviene sempre anche nelle favole più belle, torna a metterci la coda. Anzi,
ce la mettono questa volta due dei protagonisti dell’arbitrato di parte
slovena: il giudice Jernej Sekolec e l’agente governativa incaricata di seguire
il processo, Simona Drenik, che, da allocchi, si fanno intercettare, pare dai
servizi segreti croati, durante una conversazione telefonica privata sui meriti
dell’arbitrato. Il giudice le comunica che i giochi son praticamente fatti, che
in mare la Slovenia avrà quasi tutto di quanto richiesto, e cioè gran parte del
golfo e l’accesso diretto alle acque internazionali, che e’ inutile pretendere
di più, l’interlocutrice gli spiega che sarebbe il caso di insistere ancora su
alcuni tratti a terra, soprattutto lungo il fiume Mura. Comunicazione che nel
rispetto della segretezza del processo e del ruolo di superpartes del giudice,
non doveva avvenire. Di lì a due giorni, Sekolec e la Drenik rassegnano le
dimissioni e la settimana dopo, secondo le procedure previste per altro
dall’accordo, il governo sloveno nomina un nuovo arbitro. E fa un’ottima
scelta. Non nomina uno sloveno, ma un francese, Ronny Abraham, niente meno che
presidente della Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
Alla pubblicazione dell’intercettazione
della telefonata fra Sokolec e la Drenik la Croazia grida allo scandalo e
dichiara l’arbitrato contaminato e non più credibile. Che anche il loro giudice
Budislav Vukas, abbia avuto modo di fare lobby per il suo paese e passargli
informazioni confidenziali, avendo l’ufficio all’Aia nella sede dell’ambasciata
croata, non lo commenta. Vero, lui non è stato colto con la marmellata sulle
dita. Ma ammettiamolo, fin dalla stesura dell’articolo che prevedeva la nomina
di un giudice per contendente, si sapeva che ognuno, per quanto formalmente
neutrale e imparziale, avrebbe tifato per la propria parte e che la sentenza
sarebbe stata presa, in un modo o nell’altro, con 4 voti contro 1.
Forse era meglio
sancire da subito un tribunale arbitrale di 5 membri tutti stranieri. Ma così –
dicevano - disponeva la prassi giuridica internazionale.
Comunque, Zagabria,
dichiara l’arbitrato morto, chiama a raccolta tutte le forze politiche e con
voto unanime il Sabor incarica il governo di recedere dall’accordo, richiamandosi
all’articolo 60 della convenzione di Vienna. Neanche la nomina di Ronny Abraham
e i moniti dall’Aia e da Bruxelles che all’arbitrato non vi sono reali
alternative e che quindi sarà portato a compimento, con la Croazia o senza,
fanno ripensare i politici croati. E giù di nuovo slogan bellicosi, patriottici
e nazionalisti contro la Slovenia, contro l’UE, contro tutti. Una retorica che
in un paese membro dell’Unione europea non si credeva più possibile. ”A uno
Sloveno posso anche dare il mio sangue, la mia terra mai! – dichiara Damir
Kajin, della Dieta democratica istriana, che era stato con me fra i firmatari
nel 95 del citato appello di Isola. “Che l’UE si occupi di altre cose, della
vertenza su Gibilterra se vuole, ma noi ci lasci stare!”- gli fa eco l’accademico
Davorin Rudolf.
“Bruxelles non è parte
in causa!”- incalzano la ministro degli esteri Vesna Pušič e altri
rappresentanti del governo, dimenticando che sull’accordo c’e’ per altro la
firma dello svedese Fredrik Reinfeldt, all’epoca presidente di turno del
Consiglio europeo. Addirittura la conferenza episcopale croata e il deputato al
seggio specifico italiano Furio Radin tuonano contro l’arbitrato.
Solidale, se ne tira
fuori pure il giudice croato, Vukas, svelando però, nell’annunciare la mossa, qualcosa
che fa subito dubitare sul fatto che a generare la drastica decisione croata
sia stata la telefonata impropria fra i due allocchi sloveni. “Volevano (il
tribunale arbitrale) toglierci parte delle acque territoriali ed io mi ci sono
fermamente opposto!” Un’informazione che conferma in qualche modo quanto
dettosi dai due rappresentanti sloveni, ma che è poco credibile sia emersa al dì
delle dimissioni. Appare ovvio che il governo di Zagabria sapeva già da tempo
da quale parte pendevano i favori dei giudici, e visto che una divisione del
golfo che non sia esattamente a metà nonché un contatto diretto della Slovenia
con l’Adriatico internazionale non l’ha mai accettato, si e’ preparato al
disconoscimento dell’arbitrato.
La stolta telefonata
fra i due sloveni null'altro che un buon pretesto.
Messi insomma tutti
davanti al fatto compiuto e dopo essersi sottratto per l’intera settimana,
quanto è durata l’operazione “Stop all’accordo”, alle chiamate del premier
sloveno Cerar che cercava in ogni modo di farlo desistere da quanto annunciato,
è il presidente del governo croato Milanovič ora a voler incontrare il collega
e proporgli nuovi colloqui sulla questione confine.
Ma Cerar non ci casca.
Gli risponde garbatamente che all’incontro ci sta, ma solo dopo che il
tribunale arbitrale dell’Aia avrà annunciato le proprie intenzioni.
Al momento il processo
è fermo perché si aspetta il successore di Vukas. Questione di due settimane al
massimo. Se non saranno i croati a nominarlo ed è palese che non lo faranno, lo
farà, come previsto dall’accordo, il presidente del tribunale, poi i lavori
dovrebbero continuare. Poniamolo al condizionale perché la bagarre che la
Croazia ha creato potrebbe far vacillare ancora qualche animo.
Nell’attesa,
rispondendo a Milanovič, il presidente del consiglio sloveno riconferma nell’accordo
di arbitrato l’unico strumento giuridico valido per risolvere la vertenza! E il
premier croato s’incazza: “Quel che è troppo è troppo!”
E sì, le elezioni di
autunno in Croazia si avvicinano e chi non dimostra sufficiente patriottismo e
determinazione rischia di restarne fuori, per cui largo all’isterismo
collettivo.
Neanche un paio di
giorni prima della decisione del Sabor Milanovič dichiarava di non prevedere
ricadute sui rapporti bilaterali fra i due paesi – la corrispondenza col
collega sloveno lo smentisce, e come! - nei luoghi di vacanza in Istria e
Dalmazia gli Sloveni sono contenti, spensierati, dicono trattati bene e nessuno
ci pensa, ne’ vuole farlo, finché e’ in
spiaggia e al sole, alle conseguenze di un nuovo inasprimento.
Ma i 20 anni passati
non possono non aver fatto scuola e di fiducia in Slovenia nei confronti della
Croazia, dopo il suo secondo NO ad un accordo che avrebbe dovuto chiudere
consenzientemente il groppo frontaliero, non ve n’e’ neanche per un brindisi al
buon senso. Aspettiamo l’autunno e quanto
decideranno all’Aia.
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