LA
MALEDIZIONE DELLA ROTTA BALCANICA
E’ un miscuglio di costernazione, vergogna, frustrazione
e rassegnazione quello che provo nell’assistere al dramma dei profughi in
marcia verso le loro Terre promesse e al comportamento dei paesi di transito. E
non solo, anche di quelli di approdo. Lo provo e come cittadino sloveno, e come
cittadino europeo. Nei confronti dei miei governanti, a Lubiana e Bruxelles, e
di me stesso. So che non è giusto erigere recinti e muri, ma non riesco a
condannarlo. Tutt’al più lo faccio solo nei confronti del tipo di muro scelto,
ovvero del filo spinato.
Fra 5 e 10 mila gli arrivi al giorno, ognuno da
identificare, rifocillare, alloggiare, vestire ed eventualmente curare. E
quando se ne vanno, ripulire quanto si son lasciati dietro. Gran parte in
arrivo con treni e pullman ai valichi, ma gruppi anche sparsi che passano il
confine dove non ci son controlli. Un movimento di gente che la Slovenia
gestisce con sempre maggiori difficoltà pur essendo migliorati, dopo il vertice
UE-Balcani a Bruxelles, la comunicazione e il coordinamento fra i governi
investiti da questo transito.
E’ come se per l’Italia e la Germania passassero
ogni giorno da 250 a 400 mila persone. E in Turchia ci sono altri due milioni e
200 mila profughi solo siriani intenzionati a riparare in Europa, entrando in
Grecia che, con la geografia che si ritrova, con tutte le sue isole e coste
frastagliate, l’ordine Schengen non può, mano sul cuore, applicarlo come
vorremmo, da lì in Macedonia, poi in Serbia, avanti in Croazia e approdando a
un nuovo confine Schengen, a quello sloveno, che si pretende, in casa e a
Bruxelles, debba funzionare.
Inizialmente
la rotta balcanica dalla Serbia conduceva in Ungheria e da lì poi in Austria,
ma il premier ungherese Orban, il “dittatore” – come, abbracciandolo, l’ha
chiamato Juncker, presidente della Commissione europea, ha detto “basta,
tornino da dove son venuti o vadano altrove!”, e ha recintato i propri confini così
con la Serbia come anche con la Croazia, dirottando il flusso migratorio sul
nostro paese.
E siamo noi ora a dover affrontare questa emergenza,-
250 mila i transiti sino al 21 di novembre - stretti fra un dramma umanitario da governare
nel migliore dei modi e l’impellenza di salvaguardare il regime Schengen e la
sicurezza del proprio territorio e dei propri cittadini che, sì, donano tanto
alla Croce Rossa e alla Caritas e da volontari danno una mano alla polizia,
alla protezione civile e all’esercito in prima fila ad accogliere e assistere i
profughi, ma allo stesso tempo e nella stragrande maggioranza esigono dal
governo di fare come Orban, chiudere e sbarrare l’uscio.
Salvo la sinistra-sinistra, ispirata all’ellenica
Syriza, che contesta con una serie di organizzazioni non governative, anche
l’estensione di certuni compiti attinenti all’emergenza profughi e al controllo
della frontiera, all’esercito, anche se pur sempre sotto l’autorità’ della
polizia, tutte le altre forze politiche rappresentate in parlamento e alcune
extraparlamentari, ovviamente di destra, concordano col governo di metterci il
recinto almeno lì dove si prevedono o siano possibili transiti illegali e
incontrollati, come già avvenuto nelle settimane scorse in alcuni casi anche a
forte rischio per la sicurezza e l’incolumità’ dei profughi stessi.
Telecamere a infrarossi della polizia slovena hanno
colto una colonna di migranti, un migliaio circa, condotta di notte dalla
polizia croata lungo un percorso che le avrebbe consentito di eludere i nostri
controlli, ma che poi è finita in un canale, grazie a dio, attraversabile, dal
quale, conquistando la sponda slovena, sono usciti, questi poveracci, bagnati
fradici. Donne, vecchi, bambini. E già faceva freddo. I cameraman accorsi hanno
ripreso scene pietose. Una vicenda che ha fatto stridere le relazioni con
Zagabria. Poi c’e’ stato il già menzionato vertice di Bruxelles, chiesto dal
presidente sloveno Pahor, e finalmente un minimo di accordo fra tutti i
governanti balcanici, di evitare colpi bassi e coordinare l’agire. Da quel giorno
le cose son sensibilmente migliorate. Gli arrivi, soprattutto in treno, vengono
preannunciati, fino a 10 mila al giorno, poi condotti, espletate le formalità,
sempre per ferrovia o con pullman, ai centri di raccolta a ridosso del confine
con l’Austria, in primis al valico di Sentilj, e da qui, a scaglioni, passati
alle autorità austriache che poi fanno altrettanto con quelle tedesche.
Un tantino di filo spinato ce l’hanno messo pure gli
austriaci, lungo le fiancate del valico di Sentilj, dalla propria parte,
ovviamente, ma quel che e’ peggio e’ che hanno deciso di non prendere più di 6
mila profughi al giorno.
Da qui la delibera del governo sloveno di ricorrere
a misure più rigide e restrittive, recinzione compresa.
“E’ la decisione più difficile del mio mandato” –
ammette il presidente del consiglio Cerar. Cercando di attutire lo schiaffo
anche alla propria coscienza, spiega che questa non è una chiusura del confine,
ma solo un regime di controllo più severo, che il reticolato non supererà il
metro e 80 cm, sarà temporaneo e posto solo dove si possano prevedere transiti
abusivi e servirà soprattutto a dirottare migranti sprovveduti o male
intenzionati verso i valichi predisposti al loro arrivo. E si eviteranno in
questo modo anche episodi come quello del fosso guadabile con l’acqua alla
cintola. “E’ per il bene degli stessi profughi” – gli da una mano il presidente
del parlamento, Brglez.
Vienna saluta il provvedimento. Ci dice bravi,
ovviamente anche Orban. Al contrario la Croazia, appena uscita dalle elezioni
per il rinnovo del parlamento e ancora col governo uscente, che ci rimprovera tanto
l’incongruenza con l’atteggiamento di critica assunto inizialmente nei
confronti dell’Ungheria, quanto il fatto di porre il reticolato in talune zone che
proclama territorio croato.
Da Zagabria anche alcune dichiarazioni al
fulmicotone: “la recinzione spostatela entro 24 ore, o lo faremo noi!”. E
Lubiana? “Resta lì dov’e’!” Poi invia in zona reparti di polizia in pieno
assetto di guerra, ma i colleghi croati non si fanno vedere. “E’ una
provocazione cui non casco. Si muovano le diplomazie.” – replica saggiamente il
ministro agli interni croato, Ostojič.
Fatto sta che il confine sloveno-croato è ancora
oggetto di disputa, come di sa’, all’arbitrato dell’Aia, e che pertanto
andrebbe evitato qualsiasi intervento nelle zone contese. Messe così le cose,
Lubiana e’ rea!
Siamo in data, sabato 21 novembre. La recinzione ha
raggiunto già una sessantina dei 120 chilometri programmati, soprattutto lungo la
fascia settentrionale della frontiera. “Orrenda da vedere e mostruosa nella sua
simbologia storica” – le si pongono contro quattro fra le penne della
letteratura slovena più insigni: Boris A.Novak, Svetlana Makarovič, Dušan
Šarotar e Draga Potočnjak. “Violenta l’inno nazionale – sentenzia la Makarovič,
ricordando i versi di France Prešeren, il Dante sloveno, che ne sono il testo e
professano il buon vicinato e la solidarietà fra i popoli. “Fra 50 anni saremo
giudicati secondo le immagini di questo filo spinato!” – le fa eco Novak che
preannuncia una protesta costante con incontri e dibattiti ogni venerdì presso
la sede dell’Associazione degli scrittori sloveni. E le adesioni illustri non
si fanno attendere: Marko Kravos, Brane Mozetič, Vladimir Osojnik e altri.
Eh sì, siamo alle corone di spine come quella che i
soldati romani intrecciarono e posero sul capo di Gesù’. L’Europa Schengen si
difende così, ormai, a rotoli di spine, ma vien da chiedersi: riuscirà a sopravvivere
nei termini in cui è nata, cresciuta e vorrebbe invecchiare?
Ricordiamone i principi fondatori:
“L’Unione europea garantisce la libera circolazione
di persone, merci, servizi e dei capitale all’interno del suo territorio,
promuove la pace, i valori e il benessere dei suoi popoli, lotta contro
l’esclusione sociale e la discriminazione, favorisce il progresso scientifico e
tecnologico e mira alla coesione economica, sociale, territoriale e solidale
fra gli stati membri.”
Ci stiamo in questa definizione? A malapena, direi! L’emergenza
profughi soprattutto sulla rotta balcanica, ne sta mettendo a nudo le
debolezze, le incongruenze, la fatiscenza, che neanche la risposta univoca al
massacro Isis a Parigi riesce a camuffare. La Francia si dichiara in guerra con
lo Stato islamico. L’Europa le promette sostegno anche militare. Solidarietà
pure da Stati Uniti e Russia, che con essa già bombardano le postazioni
jihadiste in Siria e Iraq. Poi dalla Cina e da altri paesi importanti. Non
ultimo, il Consiglio di sicurezza dell’ONU approva all’unanimità’ una
risoluzione in tal senso. Tutti insomma pronti a coalizzare contro il califfato
che terrorizza il mondo e il cui agire sta alla base della crisi profughi. La
stragrande maggioranza di costoro scappa
proprio dai territori sotto il dominio dell’ Isis. Fugge dalla violenza, dal
terrore, dalla morte, oltreché’ dalla miseria. Ma ciononostante aumentano nei
loro confronti, istigati dai leader della destra nazionalista e fascista sempre
più in auge – da noi si sta riconfermando Janez Janša – i pregiudizi,
l’intolleranza, il sospetto e in molti anche la convinzione che siano essi
portatori del morbo islamizzante e del terrore e che quindi i confini nei loro
confronti vadano non solo socchiusi, ma sbarrati.
E’ questa purtroppo la realtà che ci trova
protagonisti, chi più chi meno, un po’ tutti, se non altro da elettori.
Che Iddio ce la mandi buona, cara Unione europea!
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